E se parlassimo di spettacolo, invece che di teatro?

Ho una serie di pensieri, apparentemente ancora non organizzati, che vorrei mettere a fuoco meglio. Proviamo. Hanno a che fare con il teatro, ma dal punto di vista dello spettacolo.

In genere si parla molto di teatro dal punto di vista dell’autore, della regia, attori, drammaturgia e se si parla di spettacolo è in relazione a questi fattori. Cioè si valuta, di solito, come la ‘carta’ diventi ‘carne’ (e se sia giusto che sia carne, o se debba essere ‘calesse’, torte alla frutta, cartellonistica… Non è sarcasmo, è per dare un’idea della varietà di concezioni e di quanto siano non in relazione tra loro ma comunque collegate in un’idea di oggetto da costruire). Così, invece che come punto d’arrivo e risultante di un processo, diciamo, dall’uovo alla gallina, vorrei vedere la faccenda nell’altra direzione, dalla gallina all’uovo, per la quale lo spettacolo (la gallina viva e generante) è il punto di partenza e la cartina di tornasole sia della lettura di un testo che dell’analisi di un allestimento (che del testo vuole essere l’interpretazione e/o la realizzazione).

Spettacolo vuol dire pubblico: se consideriamo il teatro nel suo atto finale, la performance, possiamo più facilmente ragionarlo come un processo di comunicazione e scoprire che tipo di relazione si instauri tra i suoi partecipanti, attori e spettatori, o più esattamente tra artisti e fruitori.  La relazione tra l’autore e ciò che viene rappresentato, oppure tra l’inteprete che decodifica l’autore che ha codificato il suo oggetto artistico attraverso segni da lui lasciati, la lasciamo volontariamente da parte.  Sicuramente se ne è ragionato molto di più (voglio dire, da Platone in poi abbiamo materiale autorevolissimo e illuminante, oppure provocatorio, iper-intellettuale, pagine biografiche, l’artista e la creazione) e comunque se fai teatro ti ci interroghi bene o male, sapientemente o maldestramente, ogni santa volta che sei davanti ad un nuovo progetto.

Invece rispetto allo spettacolo non come vertice della relazione tra autore e creazione, ma come oggetto di intermediazione comunicativa tra un emittente (tutti quelli sul palco e che quel palco l’hanno messo insieme) e un destinatario (il pubblico), secondo me, abbiamo un livello di teorizzazione e disamina della faccenda un po’ primitivi, o almeno io al di là del ‘a che cosa serve l’arte’ e se e come questa influenzi il pubblico (nel senso di ‘elevarne’ o ‘abbassarne lo spirito’) non mi capita di imbattermi mai. Se si tratta di televisione sì, cinema sì, opera sì, danza sì, prosa poco. Così si finisce per ragionare di spettacolo solo quando si tratti di palinsesti o stagioni, cioè quando il problema diventi ‘vendere’, ma non quando si tratti di creare. Nella versione italiota, intendendo per italiota clichés concettuali diffusi su cui si finisce sempre per scontrarsi soprattutto se hai delle idee da realizzare, l’iconografia ricorrente del destinatario è o che non ci arriva perché schiavo di un conformismo cui è legato a filo doppio, perché di alfabetizzazione culturale scarsa o primitiva, o perché disinteressato (e di contro interessato solo alla sua squadra di calcio), e che quindi è da assecondare non osando e possibilmente compiacendolo, oppure è un’isola felice, un’èlite pronta a tutto cui si possono propinare le sperimentazioni più azzardate e gratuite. In entrambi i casi, un antagonista, o comunque un bersaglio da raggiungere, auspicabilmente in gran quantità numerica (che sia numeroso e che stia lì fino alla fine della rappresentazione) e opportunamente plaudente ed adorante. In definitiva una relazione mercenaria, di cui una parte vende, l’altra compra. Oppure una relazione messianica redentrice, se seguiamo il filo di cui sopra ‘a cosa serve l’arte’.

Lungi da me sostenere che queste siano stronzate. Sono sia per il marketing fatto bene, sia per un sano e auspicabile successo commerciale di tante iniziative, che d’altro canto per una cultura educatrice ed ‘elevante’, ma non è in questi termini che voglio ragionare.

Torno ad emittente e destinatario e faccio un salto. Rileggevo ieri un paio di capitoli di un magnifico manualetto di pragmatica*, nel quale in sostanza, proprio a farla breve e terra terra, viene riassunto che secondo le teorie più condivise oggi la comunicazione è essenzialmente un riconoscimento di intenzioni, più che di significati, sulla base della capacità tutta umana di rappresentarsi gli stati mentali altrui, e che questa comunicazione (si intende verbale, ma appunto ho fatto un salto) è l’esito di un’implicita cooperazione tra chi produce il messaggio e chi lo riceve, i quali invece che passarsi informazioni come scatole che vanno accolte e sistemate da qualche parte a seconda dell’allenamento di chi le riceve ad accoglierle, stanno passandosi stimoli secondo una presunzione reciproca di efficacia e vantaggio che ne caratterizza persino le modalità di processazione.  Insomma, per farla molto breve, vi è una reciproca collaborazione sulla base di un patto di fiducia che si stia realmente dicendo qualcosa che abbia un senso e che produca una differenza nella propria rappresentazione del mondo. Si chiama pertinenza. Ascolto ed elaboro input perché ritengo valga la pena di farlo e che agiscono in un terreno già concimato e fiorito che è ciò che io so perché, in qualche modo, ho un interesse nel nutrirlo (aggiungere, togliere, far crescere…una roba così), tra l’altro massimizzando la relazione costi benefici (più effetti cognitivi possibili con il minor sforzo d’elaborazione necessario).

Insomma ci sono patti e aspettative. Un rapporto comunicativo si basa su di un accordo preliminare tra le parti e su un’implicita aspettativa di guadagnarci il massimo possibile, ad un prezzo ragionevole.

Torniamo a noi. Quindi non è che uno spettacolo è un messaggio variamente (anche splendidamente) confezionato da passare perché, fidatevi, fa bene e se non lo accettate è perché, ammettetelo, non vi piace mettervi in discussione e allargare i vostri orizzonti. Uno spettacolo è uno scambio dove il pubblico non riceve, ma aspetta. Cosa?

Insomma, qual è il patto? Cosa vuole l’artista c’arrivo, ma, se penso al pubblico e al fatto che abbia un’interesse cognitivo, relazionale ed esistenziale a nutrirsi di spettacolo, davvero, cosa penso che cerchi?

Se rifletto su di me come pubblico, io so che sono attraversata da una serie di impulsi irresistibili verso il poter guardare/assistere a qualcosa di straordinario, in quanto proprio fuori dall’ordinario: momenti cruciali, cambiamenti della fortuna, scelte drammatiche, vittorie e sconfitte, virtuosismi unici (salti mortali, piroette impossibili, record mondiali), segreti, rivelazioni, casini irresistibili (esilaranti o angosciantissimi). Qualcosa tra il ‘guardare dal buco della serratura’ e l’ ‘io c’ero’.  Non interesse alle maschere, ma a ciò che ci sta sotto. Non qualcosa che non so e che mi fa bene sapere, ma qualcosa che ho sempre saputo, ma mi è sempre stato sottratto all’esperienza. Non so se per bisogno di conoscenza o redenzione catartica, o comunque non come impulso primario. L’impulso primario è voyeristico e adrenalinico. Straordinario, esperienza, eccitazione, climax. Voglio identificarmi? Sì. Voglio non identificarmi e osservare un topo in trappola? Sì. Voglio poter provare un concentrato di emozioni fondamentali? Sì. Voglio la bellezza? Sì, in quanto estremo, allo stesso modo come l’estremo opposto, cioè la bruttezza. Voglio sentirmi parte di un processo comunicativo in cui si è in relazione con me? Sì, voglio che ci siano ritmi, stratagemmi, sorprese, richiami che mi aiutino a rimanere in contatto, voglio sorprese narrative. Parte di un patto insieme ad una collettività? Sì, come i loggionisti dell’opera, gli spettatori di un match, quelli di un concerto rock, di un concerto sublime di musica classica. Voglio alcuni rituali che mi facciano sentire parte di una comunità specifica che sta condividendo un patto. Dopodiché sarà una questione di puro gusto personale (immaginario, cultura, influenze, maestri) quale straordinario mi  attrarrà maggiormente.

Dunque, se lo spettacolo è un coacervo di ipotesi intellettualistiche anche molto azzardate e innovative su di un testo, o anche è pieno di suoni, movimenti, invenzioni, cioè pieno di effetti speciali, ma applicati su niente di speciale (cioè su niente momenti cruciali perché, per esempio, il plot è ormai secondario nella maggior parte di allestimenti; i personaggi sono sempre maschere; i virtuosismi espressivi sono confusi con ampollosità o di contro con nervosismi gestuali), perché dovrei essere attenta? Che cosa mi dà uno spettacolo che rifiuta di essere spettacolo nel senso che si rifiuta di nutrire le mie brame voyeristiche, estetiche, comunicative e adrenaliniche?

Quindi, io credo che ogni testo sulla carta non abbia solo una carne, ma anche e soprattutto indizi di quale spettacolo contenga in latenza, contestualmente collocabili, ma poi traducibili secondo più moderne abitudini ed esigenze di fruizione.

Ma ho già scritto un sacco. Era una premessa ad approfondire il tema di quale spettacolo non possiamo assolutamente fare a meno e di quanto la prosa dovrebbe interrogarsi anche in questo senso, oggi che cinema, tv, sport, narrazione hanno completamente smontato e rimontato i codici con le invenzioni più incredibili dentro i plot o a favore dei momenti cruciali, mentre noi continuiamo a inventare a favore della ‘lettura di’, che è un’altra cosa e che non è detto che continuerà a trovare a lungo un pubblico dimissionario dal suo patto e benevolmente accondiscendente a farsi ‘fare del bene’.

*Claudia Bianchi, Pragmatica del linguaggio, Roma-Bari Laterza 2003.

Questo post ha un seguito che trovate qui.

3 thoughts on “E se parlassimo di spettacolo, invece che di teatro?

  1. […] non si può continuare a prescindere. Ho riassunto la questione, così non vi dovete leggere il post precedente, a meno che non dissentiate così radicalmente che allora magari potete andare a sbirciare quelle […]

  2. tommaso ha detto:

    Non mi capita mai di fare commenti sui blog che leggo, ma in questo caso faccio un’eccezione, perché il blog merita davvero e voglio scriverlo a chiare lettere.

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