Di patti e di aspettative

Dunque, si diceva (nel post precedente) del patto tra pubblico e performer (genericamente indicando tutti coloro coinvolti a livello attivo in un qualsivoglia allestimento) a proposito dello spettacolo in senso lato. S’è detto che questo patto non è un concetto culturalmente determinato, ma fa parte additura del meccanismo intrinseco della comunicazione ed ha motivazioni cognitive. Se n’è postulata quindi la necessità e la prerogativa di essere mosso da aspettative. Che le aspettative da parte del pubblico non sono bisogni grossolani a-culturali da dribblare o di cui approfittare, ma sono alla base della decodifica stessa, quindi imprescindibili. Che queste aspettative hanno a che fare più o meno con qualcosa che potremmo chiamare bisogno tra il voyeristico e l’adrenalinico di assistere a degli estremi (momenti cruciali nella più ampia accezione del termine). Estremi, non estremismi. E infine che se il cosiddetto modello del codice (cioè del passare messaggi come fossero scatole chiuse che nel caso dell’arte ‘potrebbero far bene’) è stato superato dalle moderne concezioni linguistico-pragmatiche, insomma se perfino i semiotici veri sono andati oltre, non si capisce perché nella prosa si continuino a puntare tutti gli sforzi nella ‘visione di’ e nella ricerca drammaturgica (bellissima cosa), ma fregandosene del patto con e delle aspettative del pubblico (intendendo quindi proprio cognitive e psicologiche).  La drammaturgia si nutre a mio avviso dell’evoluzione dei meccanismi di narrazione in genere e questi sono strettamente collegati alla ricezione del ricevente, da cui quindi non si può continuare a prescindere. Ho riassunto la questione, così non vi dovete leggere il post precedente, a meno che non dissentiate così radicalmente che allora magari potete andare a sbirciare quelle due righe di argomentazione su come sono arrivata a pensarla così.

Approfondisco, anche se sempre un po’ a briglia sciolta.

Sulle aspettative del pubblico ho trovato collegamenti illustri. Per esempio René Girard, illustre antropologo, critico letterario e filosofo francese, parla di desiderio mimetico, anche applicandolo all’analisi di opere di Shakespeare. Il concetto è complesso e proprio a voler essere onesti non è che c’entri con il bisogno voyeristico da me sostenuto. E’ più applicabile ai personaggi e alle storie che non a coloro che si nutrono di personaggi e storie, ma qualche contatto per la presente riflessione lo comporta. Secondo Girard “la legge universale del comportamento umano, descritta dai grandi romanzieri (N.B. perché è nella letteratura che fonda la sua analisi), [sta] nel carattere mimetico (nel senso di imitativo) del desiderio”,* che ci porta ad imitare dagli altri i nostri desideri, ma anche il nostro stesso modo di pensare e di essere, e che fa sì che la nostra relazione con l’oggetto del desiderio sia sempre triangolare: soggetto, modello e oggetto (e quindi sempre necessitante di un mediatore: il mio desiderio per un oggetto è  suscitato dallo spettacolo del desiderio di un altro per il medesimo oggetto).  La questione può essere vista secondo una scala progressiva di intensità. A certi stadi il soggetto ambisce direttamente all’essere del modello. Il desiderio di cui parla Girard non è più allora un semplice bisogno o appettito, ma l’aspirazione o la brama di una pienezza attribuita al mediatore e che Girard definisce desiderio «metafisico»: «ogni desiderio è desiderio d’essere».**.* In questo modo è postulata attraverso quella che in fondo è una particolare visione della mimesi (cioè di uno dei meccanismi cardine della rappresentazione artistica e performativa in particolare) la costruzione stessa della personalità umana e delle sue pulsioni. E non è il solo concetto sviluppato o approfondito da Girard che metta in luce l’utilizzo antropologico e psicologico di oggetti o personaggi mediatori, necessari alla nostra costruzione identitaria o alla ‘regolazione’ dei nostri sentimenti verso l’altro da noi.  I suoi studi sul capro espiatorio (secondo alcuni profondamente connaturato alle origini della tragedia, o su cui per esempio l’intero plot dell’Edipo è modellato, o sul cui significato sacrificale possono essere ricondotte Le Baccanti, se non addirittura il sacrificio dell’eroe tragico in genere), capro espiatorio letto come funzionale all’interruzione di qualsivoglia ciclo di violenza (anch’essa imitativa), sono di fatto un altro aggancio alla nostra profonda necessità di imitare e utilizzare mediazioni e feticci.

Faccio un altro salto.

A tutto ciò fanno eco le moderne scoperte sui neuroni specchio e sulla comprensione come simulazione e autorappresentazione dell’azione altrui, di recente diffusione. Interessante sostegno biologico al modello inferenziale della comunicazione già avanzato dalla linguistica, di cui abbiamo fatto cenno nel post precedente e secondo il quale noi non analizziamo i messaggi, ma riconosciamo le intenzioni dell’altro, i neuroni specchio analogamente ci raccontano che il nostro cervello pare non funzionare come un calcolatore, ma attraverso un meccanismo che consente di comprendere immediatamente il significato delle azioni altrui e persino delle intenzioni ad esse sottese senza porre in atto alcun tipo di ragionamento****,  ma attraverso una vera e propria simulazione interna dell’azione, che non fa differenza tra azioni personalmente compiute o azioni osservate e fatte da altri. Insomma, in concreto e terra terra, attraverso una specie di mimesi cognitiva.

Scusandomi dell’approssimazione descrittiva con la quale mi sono avventurata in territori per me impervi, io comunque ne ho tratto le seguenti conclusioni: che sembra proprio che ci siano motivazioni e ragioni d’ordine antropologico, sociologico, biologico, alla nostra necessità di guardare, imitare, empaticamente proiettarsi nei panni di oppure all’opposto di prevenirli ricostruendoli, e che l’essere pubblico sia una variante privilegiata e ‘concentrata’ di questa necessità. Lo spettacolo in questo senso diventa quindi il luogo deputato per eccellenza alla mediazione conoscitiva dei desideri fondamentali e delle azioni cruciali.

Da ciò derivo la richiesta di un patto rispettato in cui ci siano elementi per desiderare, ammirare, invidiare, scoprire e non solo per farmi pensare, o farmi prendere le distanze. Non è la distanza che io voglio, ma la vicinanza.

Qualche link da dove ho citato o sono andata a ‘rubare’ spiegazioni:

* http://it.wikipedia.org/wiki/Ren%C3%A9_Girard

** Quando queste cose cominceranno, René Girard, Bulzoni

*** http://www.ildiogene.it/EncyPages/Ency=neuronispecchio.html

**** http://www.ildiogene.it/EncyPages/Ency=neuronispecchio01.html

Altri link dove sono andata a guardare:

http://lafrusta.homestead.com/rec_girard.html

http://terzo-incluso-parma.blogautore.repubblica.it/2012/09/04/la-logica-del-capro-espiatorio-un-coinvegno-su-rene-girard-a-parma/

http://www.lescienze.it/news/2012/07/06/news/il_valore_soggettivo_secondo_i_neuroni_specchio_2_-1137737/

http://www.multiversoweb.it/rivista/n-07-corpo/i-neuroni-specchio-un-meccanismo-neurale-per-la-comprensione-degli-altri-818/

http://www.linkiesta.it/blogs/nel-mirino/lo-sapete-cosa-sono-i-neuroni-specchio

1 thoughts on “Di patti e di aspettative

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